domenica 27 maggio 2012

La scuola nella rete. Pratiche didattiche tra lapis e laptop

 
L'arrivo in aula delle tecnologie digitali suscita reazioni di acritico entusiasmo o di rigetto. Ma i dati mostrano che libri e computer convivono utilmente. Percorsi di lettura su un tema molto dibattuto e poco approfondito.
Michele Dantini

Con parole semplici e chiare: perché occorre impegnarsi nella discussione su scuola e digitale, e ritenere che la questione tocchi l'intera collettività, non solo il mondo dell'educazione?
La prima buona ragione è questa: manca buona informazione, informazione indipendente, informazione qualificata e riflessiva. L'introduzione di tablet e lavagne digitali può dischiudere potenzialità rilevanti all'apprendimento e alla partecipazione. Al tempo stesso non è corretto propagandare i nuovi supporti come unica soluzione ai problemi della trasmissione del sapere. È necessario confrontarsi con pediatri, psicologi, neuroscienziati e logopedisti per prevedere vantaggi e disfunzionalità. Iniziative sul piano della didattica digitale sono avviate da università prestigiose e prontamente rilanciate dai media, ma non è chiaro se simili iniziative siano ad oggi più rilevanti sul piano educativo o su quello economico.
«L'insegnamento online - ha rilevato Anthony Grafton in un intervento appena uscito sulla «New York Review of Books» - può funzionare molto bene, se è qualificato, affidato cioè a docenti esperti e disponibili a aiutare personalmente gli studenti in ogni momento. Così inteso è tutt’altro che economico. Inteso in altro modo è invece solo un espediente in più per estorcere tasse in cambio di niente».
Infine, la questione dell'autore (o del team di autori), è troppo importante, in relazione alla qualità e responsabilità del testo scolastico digitale, per essere trascurata in nome di autoproduzioni sprovviste di regole, retoriche spontaneistiche o (peggio) interessi corporate.

Attenzione, memoria, cura
Nella convinzione che lezioni frontali e forme tradizionali dell'apprendimento siano pratiche esauste o peggio autoritarie, l'attuale ministro dell'Istruzione e della ricerca e suoi autorevoli collaboratori sono intervenuti spesso, con relazioni e interviste sulla necessità di avviare ampi processi di digitalizzazione della scuola. Crediamo sia necessario opporsi risolutamente al disegno? No. Rileviamo però che il dibattito ha insistito enfaticamente sulle potenzialità didattiche del nuovo supporto, senza considerare, a nostro parere, che la vera sfida è (o meglio rimane) quella sui «contenuti». La battaglia di Waterloo avrà giovato o meno all'Occidente? E Picasso: sarà mai stato «cubista»? Un case study può rivelarsi persino più educativo se indecidibile.
Dovremmo sforzarci di preservare le specificità del testo scritto e abilitare bambini e adolescenti alla scrittura e alla lettura. Promuovere buone pratiche argomentative, capacità di pensiero complesso, attitudini interrogative e riflessive, mobilità sintattica e varietà lessicale. Educare infine a perspicuità e ampiezza di connessioni. Obiettivi che sembrano condivisibili da tutti. Il solo mutamento di supporto è sufficiente a migliorare l'apprendimento?
Possiamo rispondere con sufficiente rapidità. No. Sappiamo invece che una combinazione di multitasking inesperto e «contenuti» ridotti a quizzario può produrre danni consistenti alle capacità linguistiche, associative e di autoorganizzazione.
Consideriamo un test divenuto celebre, condotto da due ricercatrici del Centro studi sulle interazioni tra uomini e computer della Cornell University, Helene Hembrooke e Geri Gay. In una classe si tiene una lezione con metà studenti autorizzati a scambiare posta, giocare, chattare o navigare sui loro laptop. L'altra metà è invece tenuta a seguire il docente. Semplici verifiche condotte al termine provano che gli studenti a laptop chiuso acquisiscono di più, ricordano di più.
Ricerche sull'attenzione «selettiva» confermano che esistono limiti alla capacità di elaborazione simultanea delle informazioni e che queste sono dapprima (per così dire) stipate nel magazzino di una memoria a corto termine, detta anche «memoria di lavoro». Solo in un secondo momento saranno acquisite e alloggiate nel magazzino della memoria a lungo termine. Il consolidamento dell'acquisizione, tuttavia, avrà luogo solo se le aree cerebrali implicate nel processo saranno in stato di quiete o sufficientemente sgombre di stimoli in eccesso.
L'acquisizione di nuove conoscenze è resa possibile dalla prontezza con cui associamo le informazioni in entrata a conoscenze preesistenti: la memoria individuale è un elemento determinante del processo, e decide della vivacità cognitiva di ciascuno in ogni momento della sua esistenza. Ebbene, questa stessa memoria (che inizia a costituirsi già nel periodo fetale) è strettamente associata alle esperienze di cura e accoglimento (o di incuria e rifiuto) che segnano i primi anni di vita.

Il Principio-Narrazione
In altre parole: siamo resi esperti da relazioni con adulti empatici e apprendiamo assai più (e più precocemente) per vie intuitive, mimetiche e pre-verbali che attraverso processi logico-razionali. Esiste qualcosa come un Principio-Narrazione a condurre e alimentare i processi di apprendimento: qualcosa che l'ambiente multitasking, frammentario e disparato, frustra o disperde. La mera trasmissione di unità (o «pacchetti») di informazione non garantisce che vi sia elaborazione da parte di chi riceve. «Navigare» non è ancora «apprendere».
Abbiamo invece necessità, perché l'esperienza si compia, che le informazioni siano in qualche modo esposte o ordinate organicamente all'interno di un racconto, una storia. Studi recenti sulle aree del cervello attivate dalla lettura di romanzi autorizzano a ritenere che la consuetudine precoce con questo genere letterario accresca competenze psicologiche, sociali e memoria: è evidente che i piccoli imparano a orientarsi meglio nel mondo se sostenuti dalle affabulazioni di un avveduto caregiver .
Si sostiene talvolta che gli umanisti costituiscano qualcosa come ministri di un culto in via di scomparsa, e tendano per ciò stesso alla conservazione. Forse è vero, a volte. Ma non sempre. Nel caso in questione troviamo sia opportuno mobilitarsi in favore delle potenzialità ultime della mente umana, non di consuetudini didattiche o discipline particolari.
«Politiche e didattiche dell'educazione - scrive Patricia M. Greenfield su «Science» - devono corrispondere al mutamento introdotto, sul piano dei processi di apprendimento, da televisione, videogames e internet. L'ambiente multitasking produce attitudini cognitive diverse, (connotate da) grande reattività visivo-spaziale e debolezza nei processi cognitivi superiori. L'uso di un vocabolario astratto, capacità di focalizzazione e riflessione, abilità nel trovare soluzioni, pensiero critico e immaginazione si sviluppano invece con tecniche più antiche, ad esempio la lettura».

Agenzie informative
Circola oggi un modello pedagogico radicale, mutuato dalla cultura di impresa e alimentato dalle retoriche, per più versi a-scientifiche, sui «nativi digitali». Bambini e adolescenti, si assume, sono una sorta di start up cui le pratiche tradizionali di trasmissione del sapere possono nuocere. Gli assetti di mercato mutano rapidamente, e così le capacità più richieste, le potenzialità offerte dall'innovazione tecnologica, la domanda.
A che servono capacità previsionali e competenze acquisite in mondi trapassati? I piccoli Steve-Jobs-nel-garage-di-casa vanno lasciati liberi di sbrigliarsi e il processo educativo mutare drasticamente: il docente non decide i contenuti della didattica, diviene invece una open source, un'agenzia informativa, a disposizione della «famelicità-e-follia» degli studenti.
Non crediamo che la metafora della start up sia la più adeguata a cogliere la complessità dei processi di apprendimento, ma accettiamo per un attimo di impiegarla. Se un'azienda di recente costituzione si misura senza successo sul mercato, fallisce: evidente.
È il mercato, in questo caso, che svolge il ruolo del pedagogo: premia l'apprendimento e punisce l'errore. Il fallimento di una start up può non avere caratteri tragici: procura esperienza e prelude magari a nuove start up. Possiamo però salutare entusiasticamente o ritenere reversibili i fallimenti del processo di maturazione cognitiva? La distruzione di risorse, in questo caso, ha tratti irreversibili. Ha senso modificare la scuola sul modello del mercato, e pretendere che individui pre-adulti siano consumatori sovrani, del tutto in grado di misurare esigenze e acquisire domini cognitivi?

Deficit di empatia
«Politiche orientate soltanto a limitare l'esposizione ai rischi online - sostiene la Società italiana di pediatria in un Manifesto pubblicato di recente, dedicato ai temi della rete e dell'alfabetizzazione digitale - sono dannose perché rischiano di acuire il divario» già esistente tra studenti italiani e europei. «L'applicazione delle nuove tecnologie ai processi educativi potrebbe permettere un significativo potenziamento delle capacità degli studenti, un forte stimolo alla curiosità intellettuale, e un'aumentata capacità verso la collaborazione e il lavoro di gruppo». Si tratta, insomma, non di escludere, ma di contemperare e equilibrare. E la lettura di un libro o il rapporto con un docente possono, come suggerisce Patricia M. Greenfield, continuare a rivelarsi momenti formativi preziosi.
Eppure, in Italia il dibattito su temi così importanti non è vivace e partecipato - almeno non tanto quanto dovrebbe. A tratti appare anzi perfino opaco, come condizionato da pressioni strumentali. L'euforia mediatica che da mesi accompagna le iniziative (o le semplici dichiarazioni) ministeriali pro-introduzione di dispositivi digitali nella scuola secondaria sembra orientata alla «debolezza, anzi la stupidità della mentalità stile 'la tecnologia ci salverà' che ha pervaso gli anni Novanta» (citiamo Richard Florida). Un preoccupante deficit di empatia sembra per di più caratterizzare le retoriche dell'«innovazione» digitale, e imporre un singolare mix di rifiuto della vulnerabilità e di calloso ottimismo patriarcale.


SCAFFALE
Banchi e cattedre alle prese con il web

Il tema della didattica digitale è introdotto da Anthony Grafton nel contesto di una riflessione più ampia sui costi crescenti dell'insegnamento universitario in «Can the Colleges be saved» («The New York Review of Books», maggio 2012, leggibile online nel sito della rivista).
Anche Sergio Luzzatto è intervenuto su questi argomenti sul supplemento domenicale del «Sole 24 ore» («I professori dell'autoriforma», 1 aprile 2012).
L'esperimento sulla classe «con» o «senza» laptop è esposto da Helene Hembrooke e Geri Gay nello studio «The Laptop and the Lecture: The Effects of Multitasking in Learning Environments» («Journal of Computing in Higher Education», autunno 2003).
Da leggere, sull'ambiente multitasking in relazione ai disturbi dell'attenzione «Children, Adolescents, and the Media» di Victor C. Strasburger, Barbara J. Wilson, Amy Beth Jordan (Sage 2002).
Sul tema della tecnologia digitale in contesti di apprendimento torna Patricia M. Greenfield, in «Technology and Informal Education: What Is Taught, What Is Learned», su «Science», 323, 2.1.2009, pp. 69-71. Della stessa autrice, con Yalda T. Uhls, da segnalare anche «Kids and Multitasking» (su «Commonsense», 21.1.2010, leggibile anche in rete).
Infine, il Manifesto dei pediatri per un uso sicuro e positivo del web, elaborato in occasione degli Stati generali della pediatria, nel novembre 2011, è reperibile in diversi siti (fra gli altri, «Corriere della sera Salute», www.corriere.it/salute/11_novembre_19/manfesito-pediatri-internet_4 c788f7e-12b5-11e1 -b297-12e8887ffed4.shtml).
il manifesto, 26/5/2012