L'arrivo
in aula delle tecnologie digitali suscita reazioni di acritico
entusiasmo o di rigetto. Ma i dati mostrano che libri e computer
convivono utilmente. Percorsi di lettura su un tema molto dibattuto e
poco approfondito.
Michele
Dantini
Con
parole semplici e chiare: perché occorre impegnarsi nella
discussione su scuola e digitale, e ritenere che la questione tocchi
l'intera collettività, non solo il mondo dell'educazione?
La
prima buona ragione è questa: manca buona informazione, informazione
indipendente, informazione qualificata e riflessiva. L'introduzione
di tablet e lavagne digitali può dischiudere potenzialità rilevanti
all'apprendimento e alla partecipazione. Al tempo stesso non è
corretto propagandare i nuovi supporti come unica soluzione ai
problemi della trasmissione del sapere. È necessario confrontarsi
con pediatri, psicologi, neuroscienziati e logopedisti per prevedere
vantaggi e disfunzionalità. Iniziative sul piano della didattica
digitale sono avviate da università prestigiose e prontamente
rilanciate dai media, ma non è chiaro se simili iniziative siano ad
oggi più rilevanti sul piano educativo o su quello economico.
«L'insegnamento
online - ha rilevato Anthony Grafton in un intervento appena uscito
sulla «New York Review of Books» - può funzionare molto bene, se è
qualificato, affidato cioè a docenti esperti e disponibili a aiutare
personalmente gli studenti in ogni
momento. Così inteso è tutt’altro che economico. Inteso in altro
modo è invece solo un espediente in più per estorcere tasse in
cambio di niente».
Infine,
la questione dell'autore (o del team di autori), è troppo
importante, in relazione alla qualità e responsabilità del testo
scolastico digitale, per essere trascurata in nome di autoproduzioni
sprovviste di regole, retoriche spontaneistiche
o (peggio) interessi corporate.
Attenzione,
memoria, cura
Nella
convinzione che lezioni frontali e forme tradizionali
dell'apprendimento siano pratiche esauste o peggio autoritarie,
l'attuale ministro dell'Istruzione e della ricerca e suoi autorevoli
collaboratori sono intervenuti spesso, con relazioni e interviste
sulla necessità di avviare ampi processi di digitalizzazione
della scuola. Crediamo sia necessario opporsi risolutamente al
disegno? No. Rileviamo però che il dibattito ha insistito
enfaticamente sulle potenzialità didattiche del nuovo supporto,
senza considerare, a nostro parere, che la vera sfida è (o meglio
rimane) quella sui «contenuti». La battaglia di Waterloo avrà
giovato o meno all'Occidente? E Picasso: sarà mai stato «cubista»?
Un case
study
può rivelarsi persino più educativo se indecidibile.
Dovremmo
sforzarci di preservare le specificità del testo scritto e abilitare
bambini e adolescenti alla scrittura e alla lettura. Promuovere buone
pratiche argomentative, capacità di pensiero complesso, attitudini
interrogative e riflessive, mobilità sintattica e varietà
lessicale. Educare infine a perspicuità e ampiezza di connessioni.
Obiettivi che sembrano condivisibili da tutti. Il solo mutamento di
supporto è sufficiente a migliorare l'apprendimento?
Possiamo
rispondere con sufficiente rapidità. No. Sappiamo invece che una
combinazione di multitasking
inesperto e «contenuti» ridotti a quizzario
può produrre danni consistenti alle capacità linguistiche,
associative e di autoorganizzazione.
Consideriamo
un test divenuto celebre, condotto da due ricercatrici del Centro
studi sulle interazioni tra uomini e computer della Cornell
University, Helene Hembrooke e Geri Gay. In una classe si tiene una
lezione con metà studenti autorizzati a scambiare posta, giocare,
chattare
o navigare sui loro laptop. L'altra metà è invece tenuta a seguire
il docente. Semplici verifiche condotte al termine provano che gli
studenti a laptop chiuso acquisiscono di più, ricordano di più.
Ricerche
sull'attenzione «selettiva» confermano che esistono limiti alla
capacità di elaborazione simultanea delle informazioni e che queste
sono dapprima (per così dire) stipate nel magazzino di una memoria a
corto termine, detta anche «memoria di lavoro». Solo in un secondo
momento saranno acquisite e alloggiate nel magazzino della memoria a
lungo termine. Il consolidamento dell'acquisizione, tuttavia, avrà
luogo solo se le aree cerebrali implicate nel processo saranno in
stato di quiete o sufficientemente sgombre di stimoli in eccesso.
L'acquisizione
di nuove conoscenze è resa possibile dalla prontezza con cui
associamo le informazioni in entrata a conoscenze preesistenti: la
memoria individuale è un elemento determinante del processo, e
decide della vivacità cognitiva di ciascuno in ogni momento della
sua esistenza. Ebbene, questa stessa memoria (che inizia a
costituirsi già nel periodo fetale) è strettamente associata alle
esperienze di cura e accoglimento (o di incuria e rifiuto) che
segnano i primi anni di vita.
Il
Principio-Narrazione
In
altre parole: siamo resi esperti da relazioni con adulti empatici e
apprendiamo assai più (e più precocemente) per vie intuitive,
mimetiche e pre-verbali che attraverso processi logico-razionali.
Esiste qualcosa come un Principio-Narrazione a condurre e alimentare
i processi di apprendimento: qualcosa che l'ambiente multitasking,
frammentario e disparato, frustra o disperde. La mera trasmissione di
unità (o «pacchetti») di informazione non garantisce che vi sia
elaborazione da parte di chi riceve. «Navigare» non è ancora
«apprendere».
Abbiamo
invece necessità, perché l'esperienza si compia, che le
informazioni siano in qualche modo esposte o ordinate organicamente
all'interno di un racconto, una storia. Studi recenti sulle aree del
cervello attivate dalla lettura di romanzi autorizzano a ritenere che
la consuetudine precoce con questo genere letterario accresca
competenze psicologiche, sociali e memoria: è evidente che i piccoli
imparano a orientarsi meglio nel mondo se sostenuti dalle
affabulazioni di un avveduto caregiver
.
Si
sostiene talvolta che gli umanisti costituiscano qualcosa come
ministri di un culto in via di scomparsa, e tendano per ciò stesso
alla conservazione. Forse è vero, a volte. Ma non sempre. Nel caso
in questione troviamo sia opportuno mobilitarsi in favore delle
potenzialità ultime della mente umana, non di consuetudini
didattiche o discipline particolari.
«Politiche
e didattiche dell'educazione - scrive Patricia M. Greenfield su
«Science» - devono corrispondere al mutamento introdotto, sul piano
dei processi di apprendimento, da televisione, videogames e internet.
L'ambiente multitasking
produce attitudini cognitive diverse, (connotate da) grande
reattività visivo-spaziale e debolezza nei processi cognitivi
superiori. L'uso di un vocabolario astratto, capacità di
focalizzazione e riflessione, abilità nel trovare soluzioni,
pensiero critico e immaginazione si sviluppano invece con tecniche
più antiche, ad esempio la lettura».
Agenzie
informative
Circola
oggi un modello pedagogico radicale, mutuato dalla cultura di impresa
e alimentato dalle retoriche, per più versi a-scientifiche, sui
«nativi digitali». Bambini e adolescenti, si assume, sono una sorta
di start up cui le pratiche tradizionali di trasmissione del sapere
possono nuocere. Gli assetti di mercato mutano rapidamente, e così
le capacità più richieste, le potenzialità offerte
dall'innovazione tecnologica, la domanda.
A
che servono capacità previsionali e competenze acquisite in mondi
trapassati? I piccoli Steve-Jobs-nel-garage-di-casa
vanno lasciati liberi di sbrigliarsi e il processo educativo mutare
drasticamente: il docente non decide i contenuti della didattica,
diviene invece una open
source,
un'agenzia informativa, a disposizione della «famelicità-e-follia»
degli studenti.
Non
crediamo che la metafora della start up sia la più adeguata a
cogliere la complessità dei processi di apprendimento, ma accettiamo
per un attimo di impiegarla. Se un'azienda di recente costituzione si
misura senza successo sul mercato, fallisce: evidente.
È
il mercato, in questo caso, che svolge il ruolo del pedagogo: premia
l'apprendimento e punisce l'errore. Il fallimento di una start up può
non avere caratteri tragici: procura esperienza e prelude magari a
nuove start up. Possiamo però salutare entusiasticamente o ritenere
reversibili i fallimenti del processo di maturazione cognitiva? La
distruzione di risorse, in questo caso, ha tratti irreversibili. Ha
senso modificare la scuola sul modello del mercato, e pretendere che
individui pre-adulti siano consumatori sovrani, del tutto in grado di
misurare esigenze e acquisire domini cognitivi?
Deficit
di empatia
«Politiche
orientate soltanto a limitare l'esposizione ai rischi online
- sostiene la Società italiana di pediatria in un Manifesto
pubblicato di recente, dedicato ai temi della rete e
dell'alfabetizzazione digitale - sono dannose perché rischiano di
acuire il divario» già esistente tra studenti italiani e europei.
«L'applicazione delle nuove tecnologie ai processi educativi
potrebbe permettere un significativo potenziamento delle capacità
degli studenti, un forte stimolo alla curiosità intellettuale, e
un'aumentata capacità verso la collaborazione e il lavoro di
gruppo». Si tratta, insomma, non di escludere, ma di contemperare e
equilibrare. E la lettura di un libro o il rapporto con un docente
possono, come suggerisce Patricia M. Greenfield, continuare a
rivelarsi momenti formativi preziosi.
Eppure,
in Italia il dibattito su temi così importanti non è vivace e
partecipato - almeno non tanto quanto dovrebbe. A tratti appare anzi
perfino opaco, come condizionato da pressioni strumentali. L'euforia
mediatica che da mesi accompagna le iniziative (o le semplici
dichiarazioni) ministeriali pro-introduzione di dispositivi digitali
nella scuola secondaria sembra orientata alla «debolezza, anzi la
stupidità della mentalità stile 'la tecnologia ci salverà' che ha
pervaso gli anni Novanta» (citiamo Richard Florida). Un preoccupante
deficit di empatia sembra per di più caratterizzare le retoriche
dell'«innovazione» digitale, e imporre un singolare mix di rifiuto
della vulnerabilità e di calloso ottimismo patriarcale.
SCAFFALE
Banchi
e cattedre alle prese con il web
Il
tema della didattica digitale è introdotto da Anthony Grafton nel
contesto di una riflessione più ampia sui costi crescenti
dell'insegnamento universitario in «Can the Colleges be saved»
(«The New York Review of Books», maggio 2012, leggibile online nel
sito della rivista).
Anche
Sergio Luzzatto è intervenuto su questi argomenti sul supplemento
domenicale del «Sole 24 ore» («I professori dell'autoriforma», 1
aprile 2012).
L'esperimento
sulla classe «con» o «senza» laptop è esposto da Helene
Hembrooke e Geri Gay nello studio «The Laptop and the Lecture: The
Effects of Multitasking in Learning Environments» («Journal of
Computing in Higher Education», autunno 2003).
Da
leggere, sull'ambiente multitasking in relazione ai disturbi
dell'attenzione «Children, Adolescents, and the Media» di Victor C.
Strasburger, Barbara J. Wilson, Amy Beth Jordan (Sage 2002).
Sul
tema della tecnologia digitale in contesti di apprendimento torna
Patricia M. Greenfield, in «Technology and Informal Education: What
Is Taught, What Is Learned», su «Science», 323, 2.1.2009, pp.
69-71. Della stessa autrice, con Yalda T. Uhls, da segnalare anche
«Kids and Multitasking» (su «Commonsense», 21.1.2010, leggibile
anche in rete).
Infine,
il Manifesto dei pediatri per un uso sicuro e positivo del web,
elaborato in occasione degli Stati generali della pediatria, nel
novembre 2011, è reperibile in diversi siti (fra gli altri,
«Corriere della sera Salute»,
www.corriere.it/salute/11_novembre_19/manfesito-pediatri-internet_4
c788f7e-12b5-11e1 -b297-12e8887ffed4.shtml).
il
manifesto, 26/5/2012